lunedì 8 luglio 2013

Paolo Nori: Quei morti di Reggio Emilia e noi @ PolitiKamp Civati, Reggio Emilia, 7 luglio 2013



Quei morti di Reggio Emilia e noi

L'intervento dello scrittore Paolo Nori ieri al Politicamp di Reggio Emilia: i fatti del 7 luglio 1960, il primo maggio, una poesia di Mariangela Gualtieri, il Partito democratico e molto altro

Buongiorno. Grazie dell’invito. Io volevo dire due cose, la prima, oggi è il 7 luglio, io ho scritto un romanzo sul 7 luglio del 1960, che si intitola Noi la farem vendetta e che parla di quello che è successo qua a Reggio Emilia 53 anni fa, che in pratica è successo che 5 operai sono stati uccisi perché volevano far sciopero. Ecco, voi, nel senso degli organizzatori, mi avete chiesto di parlare di questa cosa e a me sembra che il modo migliore, di parlarne, per me, sia ripetere un breve discorso che ho fatto in occasione di un convegno che c’è stato al teatro Ariosto di Reggio Emilia il 7 luglio del 2010, in occasione del cinquantenario, e il discorso che leggo tratta della paura, e dura poco più di cinque minuti, e si intitola Cosa ci possono fare, e fa così (dovete far finta di essere al teatro Ariosto):
Buongiorno, vi ringrazio per avermi invitato e per avermi dato la possibilità di lavorare ancora su questo, non so come dire, argomento, forse, anche se è strano, chiamare la cosa di cui parliamo oggi un argomento, non è mica un argomento, è una cosa dentro la quale c’è un po’ tutto; se uno comincia a studiare quel che è successo il 7 luglio del 1960 a Reggio Emilia, partendo da lì può parlare di tutto, mi sembra e io, oggi, ho pensato di parlar della paura, cominciando dalla mia, paura, e continuando con la nostra, paura, e quel passaggio lì, mia – nostra, io – noi, anche quello lì non è mica un argomento, anche lì mi sembra che ci sia della sostanza, della roba che a me, per come son fatto, mi dà da pensare, e da pensare mi danno i cosiddetti fatti di Reggio Emilia e il 7 luglio del 1960, e quel che è successo su una piazza che c’è qui a Reggio Emilia che adesso si chiama Piazza Martiri del 7 Luglio.
Quel giorno lì io avevo pauraEcco su questa piazza, qui di fianco, c’è un teatro, che si chiama Cavallerizza, dove nel 2006, quattro anni fa, io ho fatto una lettura quasi integrale di un romanzo che ho scritto su questi fatti, sul 7 luglio del 1960.
Ecco quel giorno lì io avevo paura; io avevo paura perché le cose che avevo scritto mettevan le mani dentro una cosa che, in un certo senso, come si dice con una frase fatta, con un modo di dire, appartiene alla storia d’Italia, e, se accettiamo la vaghezza dei modi di dire, questa cosa qua è anche vera; anche se le tracce, nei libri di testo, nelle enciclopedie, di questa cosa, di quel che è successo sulla piazza qui di fronte il 7 luglio del 1960, le tracce, dicevo, son molto labili, quasi nulle, e imprecise, false, a volte, a volte vien da pensare artatamente falsificate, e viene da chiedersi cosa sarebbe rimasto, di questa memoria, se non ci fosse stata una canzone, la canzone di Fausto Amodei Per i morti di Reggio Emilia, e a me da parte mia vien da dire che senza quella canzone il romanzo che ho scritto probabilmente non esisterebbe perché, probabilmente, io non avrei saputo niente, dei morti di Reggio Emilia, senza quella canzone.
Invece quella canzone esiste, e io ho saputo qualcosa, dei fatti di Reggio Emilia, e dopo i fatti di Genova del 2001,
a me è venuto in mente di scrivere un romanzo sulla violenza dello stato, e ho pensato a quella canzone, e ho scritto il romanzo, e la prima uscita pubblica è stata una lettura quasi integrale al teatro La cavallerizza, qui di fianco, e quel giorno lì io avevo paura, perché con questo romanzo io avevo l’impressione di aver messo le mani dentro una cosa che è vero, che appartiene alla storia d’Italia, ma è una cosa che appartiene anche alla storia di cinque famiglie che io non lo sapevo, come l’avrebbero preso, il romanzo che avevo scritto, e che quella sera sarebbero state lì, a sentirlo, e avevo paura.
Dopo è successo che quando la lettura è finita, dopo più di quattro ore, Ettore Farioli, il figlio di Lauro Farioli, è venuto dietro il palco e mi ha abbracciato, e io, per me, quello lì, sono cose difficili da dire, ma per me è stato un po’ come una benedizione, una benedizione laica, ma queste cose qua, quell’abbraccio lì di Ettore Farioli, e le cose che mi ha detto Silvano Franchi, il fratello di Ovidio, e le cose che mi ha scritto Alberta Reverberi, la figlia di Emilio, ecco quelle cose lì, per me, io, questo libro ha vinto un premio, l’unico premio letterario che ho vinto per un romanzo che ho scritto io, il premio Liugi Russo Pozzale, a pari merito, a pari merito conGomorra di Saviano, io lo dico adesso, che son passati quattro anni ma non l’ho detto praticamente a nessuno, quando è successo, son cose che uno si vergogna, e l’unico a cui ho telefonato per dirlo, tranne i miei amici, quelli che vedevo spesso in quel periodo lì, che lì, Dove vai? Eh devo andare ad Empoli, A far cosa? Eh, mi danno un premio, Che premio, e così via, ma l’unico al quale ho telefonato apposta per dirglielo, è stato Silvano Franchi, e lui mi ha detto che era molto contento, e mi ha fatto molti auguri per il mio futuro e la mia carriera, lui, a me, come una specie di benedizione, e io ho l’impressione che quella gente lì, i cosiddetti familiari delle vittime dei fatti di Reggio Emilia, per una questione che io non so spiegarla, per il carico che han portato tutti questi anni, da soli, quelle son cose che si portano da soli, per quel fatto lì, è gente che, quello che dice, è più pesante, vale di più di quel che posso dire io, o voi, è gente che ha patito tanto, senza colpa, che ha le mani benedette, in senso laico, che dove mettono le mani crescono i fiori, e che quando parlano, quando Lauro Farioli dice, parlando di suo padre, che è stato ucciso quando lui aveva due anni, Non mi ricordo niente, Mi son dovuto attaccare a una fotografia, quando dice, parlando di quel che è successo il 7 luglio del 1960 Queste son cose che la scuola, le istituzioni, se ne dovrebbero far carico, questa cosa qua, detta da lui, ha un peso che, detta da me, o da voi, non ce l’ha. E questa gente qua, secondo me, loro, sono, involontariamente, una cosa della quale io, personalmente, e credo anche voi, quindi noi, abbiam bisogno.


Un racconto di Rodari
Mi spiego meglio. Faccio una digressione, voglio leggervi un breve racconto di Gianni Rodari, si intitola A comprare la città di Stoccolma, e fa così:
Al mercato di Gavirate capitano certi ometti che vendono di tutto, e di più bravi di loro a vendere non si sa dove andarli a trovare.
Un venerdì capitò un ometto che vendeva strane cose: il Monte Bianco, l’Oceano Indiano, i mari della Luna, e aveva una magnifica parlantina, e dopo un’ora gli era rimasta solo la città di Stoccolma.
La comprò un barbiere, in cambio di un taglio di capelli con frizione. Il barbiere inchiodò tra due specchi il certificato che diceva: Proprietario della città di Stoccolma, e lo mostrava orgoglioso ai clienti, rispondendo a tutte le loro domande.
- È una città della Svezia, anzi è la capitale.
- Ha quasi un milione di abitanti, e naturalmente sono tutti miei.
- C’è anche il mare, si capisce, ma non so chi sia il proprietario.
Il barbiere, un poco alla volta, mise da parte i soldi, e l’anno scorso andò in Svezia a visitare la sua proprietà. La città di Stoccolma gli parve meravigliosa, e gli svedesi gentilissimi. Loro non capivano una parola di quello che diceva lui, e lui non capiva mezza parola di quello che gli rispondevano.
- Sono il padrone della città, lo sapete o no? Ve l’hanno fatto, il comunicato?
Gli svedesi sorridevano e dicevano di sì, perché non capivano ma erano gentili, e il barbiere si fregava le mani tutto contento:
- Una città simile per un taglio di capelli e una frizione! L’ho proprio pagata a buon mercato.
E invece si sbagliava, e l’aveva pagata troppo. Perché ogni bambino che viene in questo mondo, il mondo intero è tutto suo, e non deve pagarlo neanche un soldo, deve soltanto rimboccarsi le maniche, allungare le mani e prenderselo.
L’antiamericanismo non ha senso Ecco, a me questo racconto fa venire in mente un mio amico di Modena, che una volta, per una enciclopedia anarchica che c’è in rete, gli hanno chiesto di dare la definizione della parola Antiamericanismo, e lui ha risposto L’antiamericanismo non ha senso, perché l’America è di tutti, e non possiamo essere contro qualcosa che è di tutti.
Ecco, secondo me, la gente che è andata in piazza il 7 luglio del 1960, io in questo movimento, nel fatto di andare in piazza, nonostante la polizia avesse già reagito in modo violento nei giorni precedenti, nel fatto di andare in piazza proprio contro la violenza della polizia, che è stato quello che è successo a Reggio Emilia il 7 luglio del 1960, io ci leggo due cose, la prima è che questa piazza qui, la piazza dei teatri, è di tutti, e tutte le piazze e le strade e i viali di Reggio Emilia e di tutte le città dell’Emilia e dell’Italia e del Mondo, sono di tutti: la seconda che non bisogna avere paura.
E a me sembra che i famigliari di Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri e Afro Tondelli, questa cosa qua, che gli hanno ucciso il fratello, o il padre, o il figlio, quand’erano in vita i genitori, son cinquant’anni che la guardano in faccia, senza avere paura, ce l’hanno lì, tutti i giorni, è lo zaino che si mettono addosso quando escon di casa, e questa cosa, questo peso, questo zaino, ai miei occhi, li ha vivificati, li ha benedetti, li ha fatti diventar degli esempi, e, per quanto sia difficile, sarebbe bello se io, se noi, mi viene da dire, riuscissimo perlomeno a provare a far come loro.
Il coro delle mondine di Novi
C’è un libro di Kapuściński sull’Iran, si intitola Sha in sha, e a un certo punto Kapuściński dice così: I libri sulle rivoluzioni iniziano di solito con un capitolo dedicato alla corruzione del potere in declino, alla miseria e alle sofferenze del popolo. Dovrebbero invece cominciare con un capitolo di analisi psicologica dove si spieghi il processo per cui un uomo oppresso e in preda al terrore vince improvvisamente i suoi timori e smette di avere paura. È un processo insolito, che talvolta si compie in un attimo come per una specie di choc liberatorio: l’uomo si sbarazza della paura e si sente libero. Senza questo processo, non ci sarebbe alcuna rivoluzione.
C’è una canzone, che ho sentito cantare recentemente dal coro delle mondine di Novi, dove c’è quel ritornello famoso: Sì ben che siamo donne, paura non abbiamo, che a me mi commuove perché la cantava mia nonna, e mia nonna, i suoi eran mezzadri, e eran diciassette fratelli e sorelle, e suo marito, mio nonno, era orfano, e eran così poveri, anzi, c’era una miseria, a Parma si dice In casa nostra c’era una miseria, che quando siam diventati poveri abbiam fatto una festa.
Ecco mia nonna, quando si è sposata, mi han raccontato che le sue amiche le avevan chiesto come mai avevo sposato un uomo così brutto, girava la voce che mio nonno era brutto, secondo me era non bello, bellissimo, ma allora dicevano che era brutto, non era tanto alto, i capelli rossi, le lentiggini.
Be’ mia nonna una volta me l’ha spiegato, perché aveva sposato mio nonno. C’era stato un furto, e i carabinieri gli erano entrati in casa con le armi spianate per perquisirgli la casa, e Tuo nonno, mi ha detto mia nonna, li guardava in faccia come per dirgli E allora? Credete di farci paura? Non ci fate mica paura.
Che va be’, mio nonno poi è mio nonno, e io, essendo lui mio nonno, e quel nonno lì, io gli voglio un bene che non si può dire ma secondo me, al di là del fatto che era mio nonno, aveva ragione mio nonno, e lo diceva già un altro, tempo prima: Cosa ci possono fare? Ci possono ammazzare, ma non ci possono fare del male. Grazie.
Poi magari funzionano anche i microfoniEcco. Questo era l’argomento che mi avete chiesto di trattare e grazie di avermelo chiesto e l’ho fatto molti volentieri potrei anche fermarmi qui solo che invece faccio come quelli che quando prendono il microfono non lo mollano più e approfitto della vostra pazienza per dirvi una cosa che riguarda voi, nel senso di questa associazione che ruota intorno a Pippo Civati e che non saprei identificare bene neanche con un nome, e che forse non è neanche un’associazione è un gruppo di persone che io identifico con Pippo, con una mia amica che si chiama Carlotta Zarattini, e con un’altra mia amica che si chiama Elly Schlein e che fa parte di questo movimento che credo si chiami Occupy Pd.
Ecco, io, devo dire, Pippo, per esempio, quando interviene in pubblico, se c’è qualcosa che non funziona, non so, non si accende un microfono, o non parte un computer, lui dice «E be’, cosa volete, siamo pur sempre del Partito Democratico, non può funzionare tutto».
Ecco, voi siete pur sempre del partito democratico, e questa è la cosa che non capisco, e mi viene da chiedervi Ma perché?
E mi vien da pensare, scusate la banalità del mio intervento, ma io, politicamente, sono, probabilmente, un po’ ingenuo, un po’ greve, poco raffinato, ma mi vien da pensare che il partito democratico, o quello che c’era prima, se io penso a una cosa vergognosa, che esiste in Italia, sono i Centri di Identificazione e Espulsione, e quella cosa lì, col nome di Centri di Permanenza Temporanea, è stata istituita con la legge Turco Napolitano, che è una legge che hanno firmato Livia Turco e Giorgio Napolitano.
Cosa avete a che fare, voi, con quella roba li?
E, lo dico per inciso, adesso è partita la raccolta delle firme per l’abolizione, dei Centri di Identificazione e Espulsione, volevo approfittare di questa occasione per dire che io, non che la cosa sia importante, ma io, quel referendum lì, lo vado a firmare; credo che sia un referendum radicale, e che non sia appoggiato dal Partito democratico, che, come diceva ieri Soru, è il più grande gruppo misto del parlamento italiano, e mi viene da chiedervi, ancora: cosa ci fate, voi, nel partito democratico?
Perché non fate una cosa vostra, per conto vostro, che è una cosa più difficile, credo, ma forse, non so come dire, più sensata, che dopo magari funzionano anche i microfoni.
E la seconda cosa che vorrei leggervi, parla forse di questa cosa qua, del fatto di fare le cose da soli, ed è un discorso sul lavoro, e, adesso io non me ne intendo, ma mi sembra che, adesso a nessuno gli piace il lavoro precario, però a me sembra che la legge, in Italia, che ha aperto al lavoro flessibile, dicevano allora, che adesso si chiama, appunto, lavoro precario, sia legge Treu, governo Prodi (cosa ci fate voi nel partito democratico?), e il breve discorso che vi leggo adesso e con il quale finisco, è un discorso che ho scritto per il primo maggio di due anni fa, e l’avrei dovuto fare a Parma e a Treversetolo, alle manifestazioni della Cgil per il primo maggio di Parma e di Traversetolo, solo che poi era piovuto e la manifestazione di Parma è stata annullata, e quella di Traversetolo anche quella. Allora, è stato un discorso che mi è un po’ rimasto da fare e vi ringrazio per l’opportunità che mi date di farlo, dura dieci minuti e si intitola Il dolce far niente
e fa così (dovete far finta di essere a Parma e che sia il primo maggio):

Mi sun chi per laurà
Buongiorno, buonasera; io mi chiamo Paolo Nori, sono di Parma, scrivo dei libri, e mi hanno chiamato qui, per il primo maggio, a parlar del lavoro, che è una cosa che io, una quindicina di anni fa, quando ho cominciato a scrivere dei libri, non avrei mai detto, che mi avrebbero chiamato i sindacati a parlar del lavoro in occasione del primo maggio, perché io, il lavoro, cerco di lavorare il meno possibile.
Mi viene in mente una cosa che ho scritto anche in un libro, che non so se vi ricordate, ma qualche anno fa, forse tre anni fa, per radio c’era una pubblicità dove c’era una signora che diceva Ahmed, ripeti con me: Mi sun chi per laurà. E c’era questo Ahmed che diceva Mi sun chi per Laura. No, diceva la signora, non per Laura, per laurà. E Ahmed diceva Per laurà. Bravo Ahmed, diceva la signora, vedi che è facile? E poi si sentiva una musichetta e poi la voce di uno speaker che diceva che era una campagna di un qualche ministero per non mi ricordo che scopi.
E a me, non so, mi era venuto in mente che nei romanzi stranieri del sette e dell’ottocento, una delle espressioni italiane che avevo trovato più spesso, scritta in corsivo e con una nota che diceva In italiano nel testo, era: il dolce far niente.
Allora, non so come dire, avevo l’impressione che a noi, i casi erano due, o ci prendevano per degli altri, oppure ci stavano cambiando proprio i connotati.
Sempre in quel periodo lì, nella biblioteca sala borsa di Bologna, nel bagno degli uomini, qualcuno aveva scritto sulla porta la traduzione di una frase che doveva essere stato una specie di manifesto dei situazionisti.
Non lavorate mai, c’era scritto con un pennarello nero, e di fianco un cerchio attraversato da una freccia piegata che doveva essere il simbolo dell’autonomia.
E sotto qualcun altro aveva scritto, sempre con un pennarello nero: E chi ci ha mai pensato.
Ecco io, quelle cose lì, il dolce far niente, e quella scritta sul bagno della sala borsa, devo dire, le capisco, così come capisco un anarchico di Cremona che si lamentava degli anarchici che all’inizio del secolo nelle manifestazioni protestavano al grido di Pane e lavoro, e diceva che era sufficiente chiedere Pane, Pane e basta, dovevano gridare, secondo lui, e allo stesso modo mi sembra di capire una poesia di Nino Pedretti, che è un poeta romagnolo che scrive delle poesie che io trovo memorabili, una per esempio si intitola Partigiani e non c’entra molto, con il primo maggio, ma siccome il 25 aprile è appena passato mi fa piacere leggere anche quella che fa così:
I partigiani
Non è per via della gloria, che siamo andati in montagna, a far la guerra. Di guerra eravam stanchi, di patria anche. Avevamo bisogno di dire: lasciateci le mani libere, i piedi, gli occhi, le orecchie; lasciateci dormire nel fienile, con una ragazza. Per questo abbiam sparato, ci siamo fatti impiccare, siamo andati al macello col cuore che piangeva, con le labbra tremanti. Ma anche così sapevamo che di fronte a un boia di fascista noi eravam persone, e loro marionette.
Quella invece che c’entra con il primo maggio si intitola I nomi delle strade, è sempre di Nino Pedretti e fa così.
I nomi delle strade
Le strade sono
tutte di Mazzini, di Garibaldi, son dei papi,
di quelli che scrivono, che dan dei comandi, che fan la guerra.
E mai che ti capiti di vedere via di uno che faceva i berretti
via di uno che stava sotto un ciliegio via di uno che non ha fatto niente
perché andava a spasso sopra una cavalla.
E pensare che il mondo è fatto di gente come me
che mangia il radicchio alla finestra
contenta di stare, d’estate, a piedi nudi.
Ecco. Questo volevo dirlo come premessa, che a me, anche il non far niente, è una cosa che mi piace.
Quando lavoravo facendo dei lavori veri
Poi volevo dire che stamattina, quando mi son svegliato, alle sette e mezza, ho sentito un rumore, che mi sembrava di conoscerlo, mi sono affacciato alla finestra e ho visto un camion della spazzatura, con uno spazzino che lo caricava, e dopo, dall’altra parte della Porrettana, io abito a Casalecchio di Reno, su via Porrettana, c’era un autobus, che andava, e allora ho pensato che oggi, primo maggio, festa del lavoro, c’è della gente che lavora, io faccio questi pensieri che non son dei pensieri molto sofisticati, mi ero anche appena svegliato, bisogna, dire, ma delle volte li faccio anche da sveglio, son dei pensieri così, da poco, oggi primo maggio c’è della gente che lavora che, tra l’altro, subito dopo m’è venuto un altro pensiero simile che oggi, primo maggio, dovevo lavorare anch’io, che dovevo scrivere questo piccolissimo discorso che si avvia ormai alla fine che voi siete qui per sentire dell’altra roba e non è giusto che io approfitti di questo microfono che mi avete dato per dei quarti d’ora, no no, ho quasi finito, aggiungo soltanto che quella cosa lì, quello spazzino, quell’autista dell’autobus di stamattina, per il fatto che stamattina era il primo maggio, il loro lavoro prendeva un significato che a me sembrava più forte, c’era come un aura, intorno a quell’autobus e intorno a quel camion della spazzatura, e, forse, dopo, c’era anche intorno al mio computer, ma forse no, che io faccio un lavoro un po’ così che si fa anche fatica a chiamarlo lavoro e forse è proprio per quello che a me piace tanto. Che quando lavoravo facendo dei lavori veri, quando per esempio facevo l’apprendista salumaio, nei prosciuttifici di San Vitale Baganza, tre mesi d’estate, che avevo sedici anni, o quando per esempio facevo il facchino per il colle all’Althea di via Budellungo a Parma, che avevo trent’anni, e è stato il primo lavoro che ho fatto dopo la tesi, io mi ricordo che anche lì c’eran delle cose che mi piacevano, per esempio quando finivo di lavorare io ero così contento che mi sarei strappato i capelli, dal tanto che ero contento, se si capisce; dopo, la penultima cosa che vorrei dire, è una cosa a cui ho pensato una volta che sono andato a presentare un romanzo che era un romanzo sui giochi elettronici, e, a pensare ai giochi elettronici, io avevo pensato che io, che nel 1963, per me e per quelli come me, il mondo era forse un po’ diverso da quello delle generazioni precedenti.
Era una cosa che ho poi scritto anche dentro un romanzo, e po l’ho riscritta anche dentro un altro romanzo, e dev’essere una cosa che mi sembra che sia interessante perché tutte le volte che avevo l’occasione di dirla la dico, e così anche oggi.
E praticamente consiste nel fatto che quelli che son nati negli anni venti, e che avevano vent’anni negli anni quaranta, avevan dovuto combattere perché c’era la guerra e servivano dei soldati. Quelli che son nati negli anni trenta, e avevan vent’anni negli anni cinquanta, avevan dovuto lavorare perché c’era stata la guerra e c’era un paese da ricostruire. Quelli che son nati negli anni quaranta, e che avevan vent’anni negli anni sessanta, avevan dovuto lavorare anche loro perché c’era il boom economico e una grande richiesta di forza lavoro. Quelli che son nati negli cinquanta, e che avevan vent’anni negli anni settanta, avevan dovuto contestare perché il mondo così com’era stato fino ad allora non era più adatto alla modernità o non so bene a cosa. Poi eravamo arrivati noi, nati negli anni sessanta e che avevamo vent’anni negli anni ottanta e l’unica cosa che dovevamo fare, era stare tranquilli e non rompere troppo i maroni.
Mi sembrava che noi, avevo detto, fossimo stata la prima generazione che, se ci davano un lavoro, non era perché c’era bisogno, ci facevano un favore.
Cioè era come se il mondo, che per i nostri genitori era stata una cosa da fare, da costruire, per noi fosse già fatto, preconfezionato, e l’unica cosa che potevamo fare era mettere delle crocette, come nei test.
E allora aveva anche senso, che proprio in quel periodo lì, negli anni ottanta, fossero comparsi in Italia i giochi elettronici, perché uno di vent’anni che passava sei o otto ore al giorno a giocare ai giochi elettronici, che negli anni cinquanta sarebbe stato un disadattato (Sei un delinquente, gli avrebbero detto i suoi genitori), a partire dagli anni ottanta andava benissimo, perché rispondeva al compito precipuo della sua generazione, di stare tranquillo e non rompere troppo i maroni.
Noi, quelli che avevano la nostra età, la mia età, quarantotto anni, il nostro strumento, la nostra leva per farci spazio, nel mondo, per noi non era più, com’era stato per le generazioni precedenti l’entusiasmo, o il dovere, o il senso di sacrificio, o la speranza di un mondo migliore o non so cosa. No. Noi, la nostra leva, quello che ci costringeva a entrare nel mondo, per noi, era la disperazione, mi sembrava.
Ecco, quando poi è uscito, quel libro, qualcuno mi ha chiesto cosa penso di quelli che son nati negli anni settanta, negli anni ottanta e negli anni novanta, e quello che penso, io ne so poco, ma mi sembra che anche per loro, la situazione sia identica alla nostra, con una differenza, però, forse ce ne sono di più, io ne vedo una, che almeno noi quando lavoravamo ci pagavano, loro, quando cominciano a lavorare, non li pagano, e questa, secondo me, è una cosa orribile.
Noi, nati negli anni sessanta
Però, la cosa che mi viene da dire, è che noi, anche noi, nati negli anni sessanta, che abbiamo quasi cinquant’anni, ormai, siam quasi vecchi e non siam quasi entrati, nel mondo, siamo ancora lì, in un angolo, che ci ricordiamo che ci han detto di non rompere troppo i maroni, e allora, la prima volta che ho letto la poesia con la qualche voglio concludere questo breve intervento, e vi ringrazio molto di avermi invitato e di avermi dato la possibilità di lavorare il primo maggio, la prima volta che ho sentito questa poesia con la quale concludo, dicevo, ho pensato che era stata scritta per me, anche se avevo quasi cinquant’anni mentre la poesia è dedicata a dei bambini, l’ha scritta Mariangela Gualtieri osservando dei bambini che partecipavano ai laboratori del teatro delle briciole di Parma, e si intitola Sermone ai cuccioli della mia specie e fa così:
Cari cuccioli, vi ho guardato a lungo. Ero lì nascosta nel buio e vi guardavo giocare, nascosta nel buio come una carogna, come una spia che studia il nemico, come un ladro che aspetta il momento buono, come un terrorista che guarda a distanza e fa i suoi piani d’innesco. Io vi guardavo ammutolita, intenerita da voi, cari cuccioli della mia specie, e poi anche disgustata da voi che eravate lì inermi a un palmo dal mio naso.
Siete indeboliti cuccioli. Siete spaventati e soli. Siete avidi. Siete sazi. Siete svuotati. Sfiniti siete. Siete vinti.
Io vi guardavo da una quasi nausea, da tutto quel buio: ricordavo un’antica infelicità d’infanzia, un’antica paura. ricordavo bene quell’essere fra gli altri, spersa, sola. La mia paura me la ricordavo, guardando la vostra. Ricordavo bene il mio sguardo, come se lo avessi sempre visto da fuori: sbigottito, quasi non ci credevo d’essere in questo mondo, non me lo spiegavo, il mondo, non mi raccapezzavo. Come precipitata ero, dalle altezza caduta molto giù, molto di lato, nel mondo degli uomini e delle donne. Nel mondo delle case di mattoni. Nel mondo dove si lavora e si mangia e si dorme e si fa la cacca ogni giorno e ogni giorno si fa la pipì tante di quelle volte e si mangia e si dorme e ci si lava la faccia.
Da dentro quello sguardo, chiusa lì dentro nella mia fortezza io guardavo il mondo dei grandi e provavo una grande pietà. Io li sentivo che piangevano dentro. Sentivo che non ce la facevano. Li sentivo gridare dentro. Con muri dentro, con scarafaggi e muffe, dentro. E un giorno, quando ero molto piccola, ho fatto un giuramento, un giuramento infante, senza le parole, ma chiarissimo e sonante: io me li prendo tutti nel petto e li scampo, li porto in salvo.
Ho giurato così, senza dire neanche una di queste parole, ma con tutte queste parole più forti cento volte. Nel mio letto, vicino al grande armadio con lo specchio, fra le sponde altre di legno, con la sorella vicina che tossiva, giuravo forse ogni notte, per quella tosse, per la faccia stanca del mio babbo, e per tutte le facce dei grandi, coi loro segni come di grande pena. Una bambina nel suo letto ha fatto il giuramento, recitato la formula che salva, forse ha vinto sulla morte e sul mondo.
Aspettavo il giorno in cui mi avrebbero detto il grande segreto. Sentivo, lo sapevo, che dietro al loro non dire niente si nascondeva la grande verità. Sentivo, lo sapevo, che loro sapevano tutto quello che io non sapevo. Sentivo che un giorno me lo avrebbero detto e io avrei capito il mondo e non avrei sofferto come loro, perché loro stavano già soffrendo anche per me. Sentivo e aspettavo.
Poi molto piano, molto in ritardo, molto piano, millimetro dopo millimetro, in un lavorio di tic tac e minuti molto piccoli, piano piano, sono passata di là, sono caduta del tutto nel mondo, appiattita, schiacciata al suolo in un lento atterraggio.
Adesso, cari cuccioli, io sono grande. Sono molto grande. Sono quello che mai e poi mai avrei voluto essere: una persona grande. Adesso io sono dei loro. Adesso lontanissima sono dai miei favolosi sette anni, quando ero un genio buono, uscito da poco dalla lampada, e un filosofo ero, ma senza le parole, un grandioso poeta analfabeta, un artista senz’arte.
Adesso da qui, da questo esilio duro, da questo corpo con peso, da questa mente complicata, da questa mente ingombrante, da qui, da questo buio che è tutto il mio, da qui vi guardo, adorandovi. Vi chiedo aiuto. Una parte di me vi supplica, vi implora, vi chiede aiuto e aiuto. Adesso tocca a voi salvarmi, fare il giuramento. Potrete? Ci riuscirete? Mi sentite? Sentite?
Dicono che siete rotti. Siete sazi, dicono. Corrotti. Rovinati siete, come tutto il resto. Anche voi nella lista lunga delle perdite: l’acqua, l’aria, il silenzio, il pudore… Anche voi. Stuprati siete, rotti. Vecchissimi e troppo stanchi per l’infanzia. Scarichi. Vuoti.
Allora adesso imparate. Imparate l’odore dei nemici potenti. Sbranate, cuccioli, le loro mani piene. Scassate le loro tane come galere. Sputare sui loro piatti. incendiate le stanze gonfie di giocattoli, scappate, morsicate, tirate pietre sui televisori, scalciate, spaccate questo micidiale nostro sogno, l’inesauribile bisogno di confort, fateci a pezzi, scancellate noi, puniteci per aver fatto di voi le nostre miniature, per avervi disinnescati, resi innocui, per non avervi ascoltati, nel vostro sommo sapere.
Voi che eravate le porte del regno dei cieli e chi non passava da voi non passava, voi che eravate purissima gioia, voi che eravate noi bloccati nella più grande bellezza, voi che somigliavate ai cuccioli degli altri animali, voi che capivate lo splendore misterioso degli animali, voi che dormivate un sonno perfetto e benedetto, voi che vi svegliavate ridendo, voi che facevate balletti strepitosi. Voi, nostre divintà domestiche.
Nascete ancora, cuccioli. Restate. Siate. Salvate. Giurate. Siate. Siate. Siate.

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